• Intervista a Fazzini: disastro Marmolada. È necessario infittire le reti di monitoraggio
    CAE MAGAZINE n.66 - Luglio 2022
    Intervista a Fazzini: disastro Marmolada. È necessario infittire le reti di monitoraggio

Intervista a Fazzini: disastro Marmolada. È necessario infittire le reti di monitoraggio

Intervista a Fazzini: disastro Marmolada. È necessario infittire le reti di monitoraggio

CAE Magazine ha intervistato Massimiliano Fazzini, climatologo e nivologo, responsabile del Gruppo nazionale di studio sui cambiamenti climatici di Sigea, riguardo la valanga che è avvenuta sulla Marmolada domenica 3 luglio 2022, causando undici vittime, cercando di capire quali sono state le cause e quali saranno le conseguenze di questo evento sul lungo periodo, anche nella gestione del monitoraggio dei ghiacciai. 

Quale può essere stata la causa tecnica e dinamica di ciò che è avvenuto sulla Marmolada?

Adesso, con il passare dei giorni, abbiamo tutti le idee più chiare. All’inizio erano state espresse delle idee nate sulla base dell’istinto o dell’intuizione - basate sul fatto che c’era stata un’ondata di calore che non aveva riguardato solo in quei giorni specifici, ma che durava da almeno venti giorni, con temperature che spesso neppure durante la notte riuscivano ad andare sotto lo zero. Per cui la notevole quantità d'acqua di fusione del ghiaccio, insieme alla poca neve stagionale rimasta, ha contribuito in maniera determinante alla dinamicità dell’evento. Nelle prime ore si è parlato più volte del distacco di un seracco, ma in realtà in seguito ci siamo resi conto che non era stata quella la causa dell’evento: la valanga è stata generata da una parte di un ghiacciaio che ormai è un ghiacciaio relitto - cioè un ghiacciaio che ha pochissimo movimento, ormai staccato dal ghiacciaio maggiore, che probabilmente passerà a glacionevato e che, a causa delle condizioni generate dal cambiamento climatico, tende a morire. Tornando all’evento, sappiamo che, in seguito al distacco di questa parte del ghiacciaio, si sono formati dei seracchi, che fortunatamente però non sono precipitati. Altra situazione importante, ora più chiara, avendola potuta studiare attraverso modelli di simulazione, è che la velocità di questa valanga mista di ghiaccio, roccia e sassi, questo fenomeno piuttosto complesso, non ha superato i 150 km/h, contro i 300 km/h che si ipotizzavano all’inizio. La velocità di 300 km/h generalmente nelle valanghe si verifica con le valanghe di neve nubiforme e polverosa. E tutto questo lo abbiamo imparato nei giorni successivi all’evento, anche grazie al monitoraggio e all’osservazione dal vero con elicotteri.

È individuabile un trend generale sulle montagne italiane?

Nelle montagne italiane attualmente ci sono circa 900 ghiacciai, la maggior parte dei quali estremamente piccoli, dei ghiacciai di circo o ghiacciai di canalone. Abbiamo solamente tre ghiacciai che sono estesi al momento per più di 10 km², cioè il ghiacciaio della Brenva, il ghiacciaio dei Forni e il ghiacciaio dell’Adamello. La problematica di questi ghiacciai è che, esclusi quelli dei settori occidentali, sono tutti situati sotto il limite dello zero termico attuale. Sono cioè ghiacciai caldi, sono ghiacciai che con il clima attuale sono destinati a scomparire più o meno rapidamente. E questo è il vero problema. Pensiamo anche a questo fatto: addirittura rispetto a dieci-quindi anni fa il numero dei ghiacciai è aumentato, proprio perché molti ghiacciai che erano un unicum si sono spezzettati, essendo diminuiti di estensione, e si sono divisi soprattutto nella loro zona di alimentazione. Questo è un bruttissimo segnale sul fatto che tutti i ghiacciai al di sotto dei 3.800 metri di quota, mediamente, sono in sofferenza. Sono situati al di sotto del limite delle nevi perenni attuali. 

Quindi questo trend è legato al clima più che alla conformazione dei ghiacciai? 

Assolutamente sì: il problema di base fondamentalmente è che a quelle quote non è vero che in alta montagna nevica meno, tranne quest’anno che è un anno effettivamente eccezionale. Magari nevica un po’ meno sulle Alpi occidentali, ma su tutte le altre addirittura il trend è in lieve aumento, perché il problema di base riguarda le temperature. Nasce tutto dal fatto che ora, verso settembre/ottobre, si registrano temperature ancora positive sui ghiacciai, mentre una volta a settembre/ottobre c’era subito una ricarica nivometrica stagionale. Adesso la nuova neve stagionale arriva più tardi. Di conseguenza ora, con il caldo che sta facendo alla fine delle ultime stagioni primaverili, finita la stagione estiva, i ghiacciai vanno rapidamente in fusione. Per cui, poco importa se nevica di più o nevica allo stesso modo di trent'anni fa, dato che la neve stagionale tende a diminuire o addirittura a scomparire sotto i 3.500 metri, come è avvenuto quest’anno da metà luglio. Se manca l’apporto stagionale, soprattutto in virtù del fatto che le temperature estive sono particolarmente elevate, è chiaro che il ghiacciaio si riduce in spessore, in volume e in estensione. Quindi il problema è fondamentalmente termico, cui si aggiunge in seconda battuta quello nivometrico - perché la neve anche in quote più elevate rimane al suolo molto meno tempo rispetto a quello che accadeva una decina di anni fa.

Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

Probabilmente, se il trend termometrico rimane questo, tutti i ghiacciai che sono situati a quota inferiore di 3.200 metri scompariranno. I ghiacciai di circo o di canalone potrebbero scomparire entro venti o trent’anni. Chiaramente inizieranno ad andare in sofferenza anche quelli situati a quote più elevate. Per esempio, in questi giorni, osservando il ghiacciaio del Monte Rosa, si nota che fino alle quote più alte, addirittura a 4.500 metri, si sono aperti dei crepacci che a memoria d’uomo non si ricordano. E questo è un esempio molto negativo di come l’apparato glaciale sta evolvendo, nel senso che anche a quote sommitali delle Alpi si nota spesso dell’acqua allo stato libero. Del resto è chiaro che quando per più di un mese lo zero termico sale sopra a 4.000 metri anche sulle vette più elevate si verifichino dei processi di fusione. Noi rischiamo di avere dimezzati i ghiacciai entro la fine di questo secolo. Rischiamo che i pochi ghiacciai che abbiamo alle quote più elevate siano notevolmente ridotti in grandezza e spessore. Meno ghiacciai significa una minore disponibilità di acqua stoccata che viene resa disponibile durante l’estate quando c’è sia lo scioglimento della neve stagionale che lo scioglimento di una parte dei ghiacci. Per cui se andassimo incontro a una maggiore frequenza di anni e stagioni siccitose come queste, il problema della siccità intesa come disponibilità di acqua per vari usi potrebbe diventare drammatico. Poi c’è un problema più ambientale, dato che a queste condizioni avverrebbe il completo cambiamento dei sistemi morfoclimatici, con ovvi cambiamenti negli ecosistemi.  

Come possiamo migliorare la conoscenza dei fenomeni?

Questa è una questione fondamentale. Il comitato glaciologico italiano da oltre un secolo monitora i ghiacciai italiani - non tutti, certo, ma una parte rappresentativa. Questo monitoraggio viene fatto in maniera manuale: a settembre si fanno dei bilanci di massa, si vede quanta neve è rimasta, quanto ghiaccio si è sciolto, e si fa il bilancio in negativo o in positivo. La cosa fondamentale è che bisogna assolutamente e rapidamente installare dei sistemi di monitoraggio nivo-meteorologico in alta quota così da renderci conto in qualsiasi momento dell’anno quanta neve viene, quanta neve si scioglie, che temperature abbiamo alle quote sommitali. Attualmente il sistema di monitoraggio alle quote sommitali negli ambienti glaciali sopra i 3.000 metri è veramente risicato: ci saranno non più di 20/25 stazioni meteorologiche, oltretutto caratterizzate da serie storiche molto brevi, perché queste stazioni meteo sono state posizionate in tempi molto molto recenti. Quindi assolutamente occorre un infittimento deciso e sostanzioso di stazioni meteo e di webcam che ci permettano di monitorare quello che succede in questi ambienti che, ricordiamo, secondo la gran parte dei climatologi, rappresentano gli ambienti che più indicano la velocità del cambiamento climatico in atto.


a cura di Giovanni Peparello

 


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