• L'OPINIONE DI... Andrea Crestani / La "fragilità" del Veneto, tra eccellenze idrauliche e mancate risorse
    CAE MAGAZINE n.6 - giugno 2016
    L'OPINIONE DI... Andrea Crestani / La "fragilità" del Veneto, tra eccellenze idrauliche e mancate risorse

L'OPINIONE DI... Andrea Crestani / La "fragilità" del Veneto, tra eccellenze idrauliche e mancate risorse

L'OPINIONE DI... Andrea Crestani / La "fragilità" del Veneto, tra eccellenze idrauliche e mancate risorse

L’Italia è un paese fragile. Il Veneto? Lo è più di altre regioni. Chi abita questi territori pare abbia dimenticato cosa significa prendersi cura del bene comune. Ma gli ultimi eventi alluvionali “hanno risvegliato i cittadini dal grande sonno”. A dirlo è Andrea Crestani, direttore di Anbi Veneto, associazione che unisce e rappresenta gli undici consorzi di bonifica regionali. Per oltre dieci anni Crestani è stato direttore di Coldiretti, dal 2010 ricopre questo delicato ruolo in Anbi.

Cosa fa Anbi?

“Organizza e coordina gli undici consorzi di bonifica del Veneto. Quelli della nostra regione sono un’eccellenza a livello nazionale”.

Non mancano certo le criticità. Qua il territorio vi ha messo a dura prova...

“In Veneto, fino all’alluvione di Ognissanti del 2010, l’attenzione verso la sicurezza idrogeologica del proprio territorio è stata flebile e troppo spesso messa in secondo piano rispetto allo sviluppo urbanistico ed industriale. 

I cittadini hanno perso la memoria storica e si sono dimenticati le grandi alluvioni, non ultima quella del Sessantasei. In realtà la nostra regione è una delle più fragili d’Italia. Forse è proprio per questo che la gestione del territorio e delle acque, dalla Serenissima in poi, è stata sempre considerata fondamentale”.

Un’eredità che tocca in sorte ai consorzi di bonifica?

“Proprio così. Un compito che stiamo cercando di portare avanti degnamente. Le opere presenti sul territorio dimostrano la grandezza e la complessità della gestione delle acque”. 

Scattiamo una fotografia del Veneto. 

“La rete idraulica minore si sviluppa in ventiquattromila chilometri di canali ed è intersecata da grandi fiumi come l'Adige, il Brenta, il Bacchiglione, il Piave e il Tagliamento. Fiumi che dalle montagne scendono al mare molto velocemente.

Si tratta di una struttura idraulica complessa che comporta grandi rischi. Per capire meglio la dimensione della regione, ecco qualche altro dato: nell’arco lagunare abbiamo quattrocentomila ettari di superficie sotto il livello del mare, praticamente si tratta di un terzo del territorio veneto in cui l’acqua defluisce a mare solo meccanicamente.

Si tratta di un’area depressa attraversata da fiumi pensili con arginature importanti sul piano campagna. Per mantenere asciutti questi territori, estremamente pericolosi e fragili è necessario, appunto, pompare e sollevare l’acqua attraverso gli impianti idrovori, che in Veneto sono 400. In Italia se ne contano 780”.

Qual è l’origine del problema?

“Il grande sviluppo del nord-est. In quel catino abbiamo costruito il trentadue per cento di tutta la superficie artificiale. Di fatto abbiamo costruito intere città cementificando settantamila ettari di superficie. Ed è stato fatto proprio lì, dove i fiumi diventano pensili e dove il territorio è sotto il livello del medio mare”. 

I costi di gestione?

“Enormi. Gli impianti funzionano a energia elettrica, pompano continuamente acqua durante tutto l’anno. E aumentano i problemi di allagamento. Per tenere asciutto il territorio pompiamo acqua anche d’estate. Insomma, il Veneto è più fragile e più problematico dell’Olanda”. 

Quali sono i limiti più evidenti?

“Le arginature sono state costruite in origine dai famosi “scariolanti”, che hanno contribuito, attraverso la loro maestosa opera di escavazione dei canali a creare le attuali vie d’acqua del Veneto. 

Gli argini sono stati innalzati con terreni molto spesso generati dai paleoalvei, quindi sabbiosi e poco strutturati. Attualmente abbiamo arginature molto importanti ma allo stesso deboli alle nuove portate dei fiumi”.

Quindi all’attività ordinaria si aggiunge quella straordinaria. 

“Abbiamo iniziato un percorso di rimessa in sicurezza del territorio, a cominciare dai reticoli. Però siamo costretti a scontrarci con la difficoltà di reperire adeguate risorse. Quindi, nonostante i cantieri aperti siano davvero tanti, andiamo avanti a rilento”. 

E il fronte delle nuove tecnologie?

“Rappresenta una strada utile e percorribile. La tecnologia è importantissima e interviene in supplenza di quelle attività che un tempo erano svolte dall’uomo. Del resto i consorzi di bonifica sono sempre stati visti come le sentinelle del territorio”. 

Il monitoraggio, la conoscenza e la formazione diventano quindi strumenti essenziali. Ma i cittadini come possono recuperare quel ruolo di “guardiani” che una volta gli apparteneva per cultura?

“E’ un problema enorme. Anche durante il Citizen Observatories for Water Management, che si è svolto a Venezia, è stato più volte ricordato come i cittadini possono dare supporto e aiuto alla fase decisionale, ma anche preoccuparsi di contribuire a manutenere il territorio in cui vivono.

Spesso il cittadino non se n’è preso cura. L’ha urbanizzato, non si è preoccupato del fosso di fronte a casa e neppure di ciò che gli stava accadendo tutt’attorno. Le case? Spesso sono costruite in zone non compatibili...”.

Il monitoraggio è essenziale ed è importante codificare i segnali. Se ad esempio gettiamo uno sguardo sullo scenario europeo, dove queste misure sono applicate, ci accorgiamo che all’estero sono privi di un elemento fondamentale che invece appartiene al nostro paese: il sistema di protezione civile”.

E’ qua che interviene il valore aggiunto della tecnologia?

“E’ fondamentale, soprattutto nella gestione del rischio idraulico. Per la simulazione delle piene e delle esondazioni stiamo lavorando con sistemi basati su modelli matematici. Oggi, grazie a questi sistemi, abbiamo i dati e gli strumenti necessari a supportare le decisioni. Tutto questo al fine di non dover soccombere ogni volta che c’è un’emergenza”. 

Il rapporto tra uomo e tecnologia?

“Dev’essere regolato dal giusto equilibrio. La tecnologia ci aiuta a prevenire ingenti danni, ed è quindi estremamente importante. Ma siamo ancora una volta costretti a fare i conti con un grande deficit, ovvero quello finanziario.

La gestione del territorio ha bisogno di grandi investimenti. Basta guardare indietro per scoprire che le grandi bonifiche e la messa in sicurezza dell’Italia sono state compiute nei momenti in cui le risorse c’erano”. 

Intervenire in emergenza ha un costo superiore rispetto alla preventiva messa in sicurezza. Economicamente, quindi, non sarebbe anche più conveniente?  

“Certo. Il rapporto è di uno a dieci. Ma per la prevenzione sono necessari miliardi di euro. Prendiamo il caso del Veneto: dal 2010 è partito un piano contro il dissesto idrogeologico e ora, a distanza di sei anni, abbiamo le prime opere in esecuzione. Andando avanti così ci vorranno  decenni.

Il territorio va messo in sicurezza con un grande piano pluriennale. E i finanziamenti dovrebbero essere strutturati e costanti. Questo è esattamente ciò che manca. Si investe sull’emergenza e sul post emergenza. Poi? Le risorse scompaiono”. 

Quindi non c’è via d’uscita?

“Una speranza è offerta da Italia Sicura, l’unità di missione del Governo che oltre a recuperare quanto non è stato speso accelera le procedure per l’esecuzione delle opere (che oggi ingessano il meccanismo). Si tratta di un sistema che dovrebbe garantire risorse costanti per intervenire sui territori e generare nell’arco di alcuni decenni un grande piano di difesa idraulica”. 

Un’operazione che l’Olanda ha avviato trent’anni fa...

“E che ha anche concluso. Ma oggi, in Italia, realizzare grandi opere significa lavorare con grandi emergenze. Il territorio italiano, sul piano della sicurezza idraulica, è stato purtroppo abbandonato. Abbiamo distrutto l’equilibrio idraulico”.

Un passo avanti potrebbe essere il rafforzamento del rapporto tra pubblico e privato?

“Sicuramente sì. Questa relazione tra soggetti pubblici e privati rappresenta un elemento di forza. 

I Consorzi di bonifica si trovano nel mezzo. Siamo enti pubblici autogovernati, gestititi dai privati e autofinanziati. Non riceviamo soldi dal pubblico, se non per fare le opere. La gestione, però, avviene con i soldi dei nostri contribuenti e quindi privati. 

 

Insomma, abbiamo un braccio che tende la mano al pubblico e uno al privato. Se la gestione del territorio non è efficiente, non riceviamo denaro. Un aspetto che la politica sembra trascurare, mentre il privato ci associa al pubblico. L’elemento di forza è proprio questo: essere sussidiari tra le due parti. Guardando al futuro è proprio questo l’elemento vincente”.  

GUARDA l'intervista ad Andrea Crestani da COWM 2016: VIDEO 

 

a cura di Gianluca Testa