• L'OPINIONE DI...Fausto Guzzetti
    CAE MAGAZINE n.12 - marzo 2017
    L'OPINIONE DI...Fausto Guzzetti

L'OPINIONE DI...Fausto Guzzetti

L'OPINIONE DI...Fausto Guzzetti

Intervista a Fausto Guzzetti, Direttore dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, (CNR IRPI), membro del Comitato Tecnico-Scientifico della Struttura del Commissario straordinario per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma del 24 agosto 2016.

Dott. Guzzetti, viviamo in un Paese che raccoglie l’intero campionario di rischi naturali: terremoti, vulcani, alluvioni, frane, incendi, valanghe, cui si aggiungono le conseguenze dei cambiamenti climatici, come siccità, ondate di calore o eventi meteo cosiddetti estremi.
Anche limitandoci al “solo” dissesto geo-idrologico, è evidente che siamo un Paese estremamente fragile, con migliaia di piccoli e grandi movimenti franosi diffusi su tutto il territorio. Per non parlare degli innumerevoli corsi d’acqua perennemente a rischio esondazione. Una situazione che deriva da decenni di incuria, mancata manutenzione, scelte urbanistiche scellerate e totale mancanza di consapevolezza del problema. E solo di recente, dopo migliaia di morti e miliardi di danni, quantomeno si è ammesso che il problema esiste. Per farvi fronte, un paio d’anni fa è nata la struttura di missione di Palazzo Chigi “Italia Sicura”, che ha pianificato e sta portando avanti centinaia di opere strutturali per la prevenzione e la mitigazione del rischio idrogeologico. Si può dire che si sia finalmente intrapreso il percorso giusto?

“In passato di errori ne sono stati fatti. È evidente.  Ci troviamo oggi ad affrontare e gestire problemi dovuti ad azioni, alcune giuste molte sbagliate, fatte da altri prima di noi. È utile capire cosa è andato storto, non per cercare dei colpevoli (cosa poco utile quando le colpe sono collettive) ma per non ripetere gli errori e contrastare efficacemente i problemi. Molti dei problemi dipendono da azioni (o dalla mancanza di azioni) relativamente recenti nella nostra storia, riconducibili a periodo dal dopoguerra ad oggi. È il periodo nel quale è cambiata la struttura sociale ed economica, e con essa l’approccio al territorio e ai rischi geo-idrologici. Abbiamo abbandonato campagne, colline e montagne. Siamo passati da un’economica rurale e agricola a una industriale e dei servizi. Nel farlo abbiamo consumato il paesaggio dimenticandoci della sua manutenzione.

Italia Sicura va nella direzione giusta, perché riconosce il problema e prova ad affrontarlo. E questo è di per sé un cambio di rotta (e di prospettiva) significativo. Ma ci vorrà tempo. Del resto, ci abbiamo messo tempo a “scassare” il paesaggio, e non possiamo pretendere di sistemarlo in pochi mesi o pochi anni. In questo senso, il limite maggiore di Italia Sicura è quello di essere una “unità di missione”, la cui vita è legata a quella del Governo che la istituisce. Morto il governo, finita Italia Sicura. Per affrontare con una ragionevole speranza di successo il difficile tema della mitigazione del rischio geo-idrologico è indispensabile un impegno di lungo periodo; un periodo ben più lungo della vita media dei governi italiani. È quindi indispensabile che la missione di Italia Sicura si trasformi in una missione di lungo periodo, non solo del governo centrale ma di tutti i livelli di governo del paese”.

Lei è direttore di un importante istituto di ricerca del CNR, l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI): quale rapporto intercorre fra enti/istituzioni deputati alla salvaguardia del territorio (e conseguentemente dei cittadini) e il mondo della ricerca? Ritiene che la ricerca sui rischi sia considerata strategica?

“Purtroppo no. Lo dimostra in modo eclatante il fatto che il Programma Nazionale della Ricerca (PNR) 2015 – 2020 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), ignora completamente i rischi naturali e le sue conseguenze. Fra le 12 are tematiche (Aerospazio, Agrifood, Cultural Heritage, Blue growth, Chimica verde, Design, creatività e Made in Italy, Energia, Fabbrica intelligente, Mobilità sostenibile, Salute, Smart, Secure and Inclusive Communities, e Tecnologie per gli Ambienti di Vita) e le 5 aree di specializzazione (Aerospazio e Difesa; Salute, alimentazione, qualità della vita; Industria intelligente e sostenibile, energia e ambiente; Turismo, patrimonio culturale e industria della creatività; Agenda Digitale, Smart Communities, sistemi di mobilità intelligente) previste dal PNR non ce n’è una specifica sui rischi naturali e i loro impatti, sulla popolazione, i beni privati e collettivi, il territorio, le economie. Come se il problema non esistesse. Come se l’impatto dei rischi naturali non fosse grande, persistente e pervasivo nel nostro Paese. I recenti terremoti che hanno colpito il centro Italia a partire dal 24 agosto dello scorso anno hanno dimostrato che, purtroppo, non è così. Si può argomentare che i rischi sono compresi in molte delle aree tematiche e di specializzazione. È forse vero. Ma il fatto di non riconoscere – e non da oggi – i rischi naturali come un problema strategico per il paese, e considerali piuttosto un fatto o una condizione ancillare o secondaria di altri temi, è stato – e rimane – un errore grave. La ricerca sui rischi naturali e antropici e sulle loro conseguenze deve essere riconosciuta come centrale per lo sviluppo del paese, per poter disegnare strategie di adattamento che siano al contempo efficaci e sostenibili. Limitandosi al campo di ricerca che mi è più famigliare, quello del dissesto geo-idrologico, dopo (e sempre solo dopo) ogni evento, da più parti si chiede ai meteorologi di fare previsioni più accurate, nello spazio e nel tempo, prevedendo dove e quanto pioverà, si chiede agli idrologici di sapere quando e dove un fiume esonderà in risposta ad una forte precipitazione e quali danni farà, si chiede ai geologici di prevedere dove e quando ci potranno essere frane, innescate dalle piogge, dalla rapida fusione della neve, o anche dai terremoti. Sono domande legittime alle quali il mondo della ricerca dovrebbe sforzarsi di dare una risposta. Tuttavia, da anni non si investe in ricerca e sviluppo per progetti in meteorologia, in idrologia, e in geologia. Cosa si può pretendere? Che meteorologi, idrologi e geologi guardino in una palla di vetro e trovino delle soluzioni? Non funziona così. Nel mondo della ricerca, per avere risposte a domande difficili come quelle poste sui rischi naturali, servono risorse. Che mancano da troppo tempo”.

Quanto (o come) si investe in Italia per queste ricerche? Ci sono rischi ai quali viene attribuita minore importanza pur non essendo rischi minori? Se sì, perché?

“In Italia, e ormai da troppo tempo, si investe poco, troppo poco sulla ricerca e lo sviluppo tecnologico sui rischi naturali, tutti, e i loro impatti. Oltre a quanto già detto sul PNR, le basti sapere che l’Ente per il quale lavoro, il CNR, non ha un progetto (finanziato!) sui rischi naturali e i loro impatti. I ricercatori che lavorano sui rischi, nell’istituto che dirigo ed in altri istituti che si occupano di rischi, sono costretti a cercare le poche, pochissime risorse disponibili in un piccolissimo “mercato della ricerca”, che fra l’altro è molto polverizzato, con micro-finanziamenti di poche decine di migliaia di euro, per tempi brevi, e generalmente per la fornitura di consulenze e servizi.

Sarà che è il tema di ricerca sul quale ho lavorato più attivamente, ma la ricerca sui fenomeni franosi è, se possibile, quella meno finanziata. Ho l’impressione che si considerino le frane come degli eventi intrinsecamente imprevedibili, e quindi per i quali non ha senso investire per conoscerli meglio. Al contrario, le frane sono potenzialmente più prevedibili di altri fenomeni naturali. Il fatto è che facciamo troppo poco che provare a prevederle le frane, nello spazio e nel tempo. E questo anche per la cronica mancanza di risorse.

Un considerevole supporto per la mitigazione e la lotta al dissesto idrogeologico, viene dalla tecnologia: telecamere, pluviometri, sensori, sistemi di allertamento in tempo reale, ma anche rilevamenti aerei, droni e radar altissima definizione. Quanto determinanti sono queste tecnologie nella lotta e nella prevenzione di frane e alluvioni?

“Come in molti altri campi, la tecnologia è fondamentale, in particolare perché ci permette di misurare gli effetti di fenomeni naturali con grande accuratezza. Lord Kelvin scriveva “If you can not measure it, you can not improve it”, ossia “Se non lo puoi misurare, non lo puoi migliorare”. Questo vale anche per i rischi naturali e i loro effetti sull’ambiante. E tanto più che oggi le tecnologie ci permettono di misurare con grande accuratezza e continuità nel tempo alcuni fenomeni naturali. Mai come adesso siamo stati in grado di misurare, nello spazio e nel tempo, fenomeni apparentemente semplici. Un esempio, forse banale, è la pioggia. Più le reti di misura si infittiscono, più migliorano i sistemi e le tecnologie che impieghiamo per misurare la pioggia, più ci rendiamo conto di quanto sia variabile la piovosità, e come da questa variabilità dipenda la nostra capacità (o incapacità) di prevedere eventi naturali che dipendono strettamente dalla pioggia, come le piene improvvise o le frane superficiali.

Ritengo che uno dei motivi per cui la nostra capacità di prevedere le frane è inferiore a quella di prevedere le piene dei fiumi è che siamo meno capaci di misurare i parametri che controllano la franosità. E su questo c’è molto da fare”.

CNR IRPI sta portando avanti progetti specifici in questo ambito?

“Sì, in Istituto portiamo avanti diverse ricerche mirate ad aumentare le capacità di misurare e prevedere i fenomeni naturali geo-idrologi, e le loro conseguenze. E lo facciamo a tutte le scale geografiche e temporali. Le faccio alcuni esempi. I nostri idrologi hanno sviluppato algoritmi che migliorano la stima della pioggia basandosi sul contenuto d’acqua nel suolo ottenuto elaborando dati ripresi da diversi sensori satellitari [http://www.irpi.cnr.it/focus/sm2rain/]. Utilizzando sensori satellitari diversi, i nostri geomorfologi hanno messo a punto sistemi innovativi per la mappatura di frane d’evento, innescate da terremoti o da piogge particolarmente intense  [http://www.irpi.cnr.it/product-service/elim/]. Sviluppiamo anche sensori specifici per il monitoraggio in sito delle frane. Ad esempio, abbiamo sviluppato uno strumento robotizzato che permette di effettuare misure inclinometriche anche in fori di grande profondità con accuratezze e tempi di rivisitazione difficilmente ottenibili con misure manuali [http://www.irpi.cnr.it/focus/ais/], abbiamo sviluppato sistemi di monitoraggio e allertamento di colate detritiche [http://www.irpi.cnr.it/focus/almond-f/], e stiamo sperimentando l’utilizzo di fibre ottiche in vari sistemi di monitoraggio [http://www.irpi.cnr.it/focus/sensori-in-fibra-ottica/].

Per il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile abbiamo poi sviluppato SANF, un sistema di allerta a scala nazionale per la previsione operativa di frane indotte dalla pioggia in Italia[http://www.irpi.cnr.it/product-service/sanf/].”

Infine Dott. Guzzetti, se è vero che oggi non si può più prescindere dalle tecnologie per il monitoraggio del territorio, rimane comunque fondamentale il ruolo dell’amministratore, del tecnico, dello studioso: quanto al singolo cittadino, si può essere resilienti anche in tema di dissesto idrogeologico? Quali buone prassi quotidiane si sente di suggerire?

“In effetti, ci sono cose che possiamo fare da soli, come singoli, per difenderci da frane e da inondazioni. E possono anche essere molto importanti ed efficaci. Prima di tutto informarci sui rischi nelle aree dove viviamo, dove lavoriamo, dove vanno a scuola i nostri figli. E poi adottando comportamenti adeguati. Per esempio, quando piove molto è meglio spostarsi ai piani alti delle abitazioni nelle stanze più lontane dai versanti. Questo ci aiuta a difenderci sia dalle frane che dalle inondazioni. Una cosa da non fare è fermarsi sotto a versanti dai quali esce dell’acqua, perché possono franare. Un’altra cosa assolutamente da non fare è attraversare un ponte su un torrente in piena, perché può esondare e può farlo molto velocemente. O anche andare a spostare l’auto che abbiamo parcheggiato vicino ad un fiume. Se il fiume esonda non riusciamo a salvarla, e soprattutto l’auto non salva noi. Sembrano raccomandazioni banali, ma possono fare la differenza. Possono salvarci la vita”.

a cura di Patrizia Calzolari

 

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