• Il clima cambia e indietro non si torna: intervista al meteorologo Filippo Thiery
    CAE MAGAZINE n.18 - Novembre 2017
    Il clima cambia e indietro non si torna: intervista al meteorologo Filippo Thiery

Il clima cambia e indietro non si torna: intervista al meteorologo Filippo Thiery

Il clima cambia e indietro non si torna: intervista al meteorologo Filippo Thiery

Dott. Thiery, innanzitutto qual è la differenza fra "tempo atmosferico " e "clima"?

Il clima di una località è costituito dall’insieme dei valori delle variabili atmosferiche (temperature, precipitazioni, venti, ecc.) che mediamente caratterizzano quella zona nei vari periodi dell’anno solare; da un punto di vista operativo, questo corrisponde a calcolare la media delle varie variabili misurate in quella località, per ogni periodo dell’anno, su una storia lunga – per convenzione internazionale - almeno un trentennio, in modo da effettuare questa operazione su un campione statisticamente significativo di annate, capace quindi di restituirci un dato rappresentativo di quel che normalmente si misura in quel luogo. Naturalmente il clima così definito non rappresenta un ipotetico dato atmosferico fisso che si ripete con rigorosa puntualità a ciclica cadenza annuale, ma più realisticamente un dato medio, attorno al quale esiste una naturale variabilità meteorologica interannuale, con scostamenti evidentemente sia verso l’alto che verso il basso: questa fisiologica mutevolezza da un anno all’altro è – per l’appunto – quello che chiamiamo tempo atmosferico, cioè quello che concretamente ci troviamo sulla nostra testa in un qualsiasi giorno della nostra vita; finché questa variabilità si svolge in maniera sostanzialmente simmetrica rispetto alla media trentennale (cioè il verificarsi di mesi o stagioni più caldi della media è equilibrato, in altri anni, da fasi specularmente più fredde della media stessa), vuol dire che il clima non è cambiato. Pensatela come l’andamento scolastico di uno studente in una data materia: se quel ragazzo ha la media del 7 in inglese, quest’ultimo è semplicemente un dato rappresentativo del suo andamento complessivo (per l’appunto il suo “clima”) in quella disciplina, e deriverà dal fatto di prendere a volte 6 e mezzo, a volte 7 e mezzo, a volte 6, a volte 8, magari - più raramente, ma può succedere – una volta 5 e poi alla verifica successiva 9, il tutto sintetizzato da quel 7 in pagella. Il singolo compito in classe o la singola interrogazione dicono poco sull’andamento complessivo, che è calcolato appunto come media totale. Se quello studente, a un certo punto del suo percorso scolastico, inizia a studiare di più (o magari, chissà, a copiare dal compagno di banco più bravo, “drogando” quindi in qualche modo le sue prestazioni), i voti superiori al 7 diventeranno più numerosi e più con scostamenti più pronunciati rispetto a quelli al di sotto, e la sua media si alzerà.

L'espressione "cambiamenti climatici" oggi è diffusa e chiamata in causa ormai da tutti quale responsabile o all'origine di fenomeni meteo definiti "estremi" o anomali (pesanti ondate di calore, siccità, violenti nubifragi, eccezionali nevicate) con le conseguenze che tutti conosciamo sull'uomo e sul territorio. Ma cosa sta davvero succedendo al nostro clima?

Sta accadendo che non solo la Terra, da un secolo e mezzo a questa parte, mostra segni inequivocabili di un cambiamento climatico su scala planetaria, in particolare un aumento della temperatura ormai quantificabile (come dato medio calcolato alla scala globale) in circa 1 grado centigrado dal 1880 ad oggi, ma che il ritmo di questo riscaldamento non è affatto lineare, ed è accelerato drasticamente negli ultimissimi decenni. I dieci anni più caldi dell’ultimo secolo e mezzo, sempre a livello di media globale, si collocano tutti nell’ultimo ventennio, anzi quasi interamente nell’ultimo decennio. Le ricostruzioni climatiche che vanno più indietro nel tempo ci dicono che i valori di temperatura globale registrati in questi ultimi decenni sono i più alti da svariate centinaia di anni a questa parte, probabilmente anche da vari millenni. Gli effetti di questo cambiamento sul nostro pianeta sono a dir poco drastici, e vanno dal cambio di regime delle precipitazioni (con l’apparente paradosso che vede grandi siccità a fianco di una aumentata frequenza di eventi estremi di precipitazione, come dire che complessivamente piove meno, ma quel che piove viene giù tutto insieme), all’innalzamento del livello degli oceani (che vuol dire futura scomparsa sotto le acque di zone costiere dove, ad oggi, abitano centinaia di milioni di persone in giro per il globo), alla fusione dei ghiacciai montani (riserva inestimabile negli equilibri dell’intero ecosistema, non solo quello - delicatissimo - d’alta quota), all’acidificazione degli oceani (che mette a gravissimo rischio interi ecosistemi marini, a partire dalla morte delle barriere coralline), per non parlare di quanto sta accadendo ai ghiacci marini: negli ultimi tre decenni abbiamo perso gran parte della superficie della calotta polare artica, della quale ormai mancano all’appello quasi due milioni di chilometri quadrati, e che a questo ritmo sparirà completamente entro i prossimi 25 anni, alterando drasticamente la circolazione oceanica ed atmosferica a livello planetario. “Stiamo entrando nell’ignoto a una velocità spaventosa”, ha spiegato recentemente Michel  Jarraud, segretario generale dal 2004 al 2015 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che in una occasione precedente aveva efficacemente sintetizzato il contenuto dei rapporti sui cambiamenti climatici con l’affermazione – tanto scientificamente ovvia quanto in clamoroso contrasto con le perenni trattative politiche, a partire dai mercanteggiamenti sulle quote di emissioni dei gas serra – secondo cui “le leggi della Fisica non sono negoziabili”.

Quanto e cosa di questi cambiamenti si può considerare "normale" e quanto invece è il frutto di condizioni "indotte"?

Anche se il clima della Terra, come impariamo fin dalle scuole elementari studiando le varie ere geologiche, è sempre cambiato, quello di cui stiamo parlando non ha precedenti nella storia del nostro pianeta dal punto di vista della rapidità con cui sta avvenendo, e questo è l’elemento che rende le conseguenze particolarmente gravi e soprattutto difficilmente reversibili, a maggior ragione se ne consideriamo gli impatti su un tessuto, assai vulnerabile, che nelle ere passate non esisteva, quello degli insediamenti e delle attività del genere umano. Il motivo di un segnale di cambiamento climatico così diverso da quanto avvenuto nella precedente storia del nostro pianeta è assolutamente conclamato. I rapporti ufficiali sul clima, infatti, affermano che la causa dell'attuale riscaldamento climatico globale è da attribuire quasi totalmente alle attività umane, ove quel “quasi” rende semplicemente conto del rigore della Scienza (sacrosanto da un punto di vista metodologico, ma forse fuorviante da un punto di vista comunicativo) nel non utilizzare termini assoluti in assenza di dati altrettanto assoluti, come dire che anche dover escludere un contributo irrilevante in termini percentuali ma comunque non nullo (una parte su mille, o su un milione, o su un miliardo) corrisponde a non poter affermare “del tutto” ma a dover dire “quasi”, come appunto in questo caso. E’ infatti sufficiente passare dalla terminologia qualitativa alla verifica dei numeri in gioco, per scoprire che i contributi delle cause naturali alle variazioni climatiche in atto, come quelli riconducibili all’attività solare o alle eruzioni vulcaniche, sono percentualmente ridicoli rispetto alla forzante di origine antropica; è come aprire le valvole dei termosifoni al massimo in tutte le stanze della propria abitazione, magari contemporaneamente accendere il forno in cucina, l’asciugacapelli in bagno, la piastra per lisciare i capelli in camera da letto e la stufa elettrica in salotto, e poi chiedersi se l’improvviso aumento della temperatura che - vedi tu - percepiamo in casa è da attribuire piuttosto al fatto che il nostro gatto quel giorno abbia la febbre, e quindi fornisca a sua volta un contributo al bilancio di calore dell’ambiente domestico… problema di termodinamica anche carino e originale da proporre agli studenti di un corso di Fisica I, per abituarli a prendere dimestichezza con il confronto fra diversi ordini di grandezza, ma assolutamente demenziale da considerare in termici pratici, a maggior ragione se, parlando dei provvedimenti da prendere per contrastare quel rialzo termico, ci si mette a disquisire della temperatura corporea del micio, prima di occuparsi di abbassare tutte le fonti di calore che abbiamo acceso in giro per casa. Al di là delle sottigliezze lessicali, vista l’assenza di dubbi su un segnale senza precedenti dal punto di vista della rapidità di mutamento, l’inequivocabilità sulle cause a dir poco primarie del riscaldamento in corso, la gravità di quest’ultimo e dei suoi potenziali impatti, la consapevolezza di essere prossimi a un punto di non ritorno, la potenziale irreversibilità di questo trend e l’urgenza assoluta di attuare ingenti misure di mitigazione alla scala globale… è semplicemente pazzesco, per non dire scellerato e delittuoso, che spesso si senta più discutere su quel “quasi” di valore prettamente accademico, che sulle restanti novecentonovantanove parti su mille di indiscusso (ribadisco: indiscusso) contributo da parte delle attività antropiche. 

Anche quando si sentono chiedere ossessivamente “certezze unanimi” alla Scienza, prima di avallare la messa in pratica dei protocolli e degli accordi di mitigazione del riscaldamento globale, si rischia spesso di sconfinare in questioni di lana caprina semplicemente criminali, e non è un aggettivo esagerato se si pensa a qual è la posta in gioco e all’urgenza ormai assolutamente conclamata di mettere in campo quei provvedimenti alla scala globale. Se scopriamo, in maniera inequivocabile, di avere un tumore, e ci dicono che esiste un protocollo di cura in grado di darci speranze di sconfiggerlo o almeno di circoscriverlo, il tutto dopo analisi condotte con i più avanzati metodi della medicina, dopo fior di verifiche ripetute e incrociate, e avendo consultato tutti gli specialisti del globo trovando il parere concorde del 99% di questi ultimi tanto sulla diagnosi quanto sulla prognosi… non credo ci venga in mente, neanche lontanamente, di fare i cavillosi sul fatto che c’è ancora un 1% di margine di scettici da tenere in considerazione, e manderemmo giustamente a quel paese chi, in nome del beneficio del dubbio misurato in termini di cifre decimali, si mettesse di traverso fra noi e la cura da intraprendere, specie se è assodato che non c’è più un minuto da perdere.

Esiste un "momento x" a partire dal quale si può dire che si siano manifestati i primi sintomi di questi cambiamenti?

Oggi, con il senno del poi, sappiamo che l’alterazione della composizione dell’atmosfera da parte delle attività umane, nel nostro emisfero, è iniziata già prima della metà del diciannovesimo secolo (e prima dell’inizio del ventesimo anche nell’altra metà del globo), seppur in quella fase in misura ancora lieve, dato che il tasso di immissione di gas serra in atmosfera legati all’industrializzazione era ben inferiore a quello raggiunto con il vertiginoso aumento dei decenni a seguire, fino al ritmo attuale, che ha portato la concentrazione di CO2, dalle 280 parti per milione dell’era pre-industriale, a varcare la soglia delle 400 parti per milione, livello per ritrovare il quale bisogna andare indietro di almeno 3 o 4 milioni di anni. E sempre ex-post, possiamo affermare che già durante gli anni quaranta del ventesimo secolo si siano manifestati i primi segnali degli impatti delle emissioni antropiche sul clima del pianeta in termini di riscaldamento globale, per quanto non paragonabili all’escalation, semplicemente spaventosa, registrata da due o tre decenni a questa parte. Nella seconda metà del ventesimo secolo questa tematica, complice anche l’aumentata disponibilità di misure continuative con copertura rappresentativa a livello emisferico e globale, ha iniziato a essere studiata dalla comunità scientifica in modo via via più sistematico, finché all’inizio degli anni ottanta uscirono i primi lavori che inquadravano chiaramente e inequivocabilmente la gravità della situazione. A quel punto, a cavallo fra la fine degli anni ottanta ed i successivi dieci anni, una storica sequenza di appuntamenti ed attività in seno alle Nazioni Unite (dall’inizio del percorso del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico alla stipula del protocollo di Kyoto, passando per il Summit della Terra di Rio de Janeiro) portarono la problematica alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale, facendola contestualmente entrare nell’agenda politica globale, anche se purtroppo con scarsi o nulli risultati dal punto di vista degli accordi sulle misure da intraprendere, a partire dalle scelte globali sul modello di sviluppo e sulle politiche energetiche, fino all’appuntamento parigino di due anni fa, che ha finalmente messo un punto fermo alla questione, la cui attuazione - però - è ormai diventata qualcosa da realizzare in tempi ristrettissimi, con scadenze altrettanto pressanti, se si vuole davvero contenere il danno entro limiti vagamente sostenibili. 

Quindi, in sintesi, volendo individuare i principali "colpevoli" di questa situazione,  contro chi o cosa puntare il dito?

I “colpevoli” sono individuati in maniera molto precisa dalla comunità scientifica, a partire ovviamente dai rapporti sul Clima delle Nazioni Unite: alle emissioni antropiche di gas serra (Biossido di Carbonio e Metano in primis) che, come risultato dell’utilizzo dei combustibili fossili, da quasi due secoli immettiamo in atmosfera in concentrazioni superiori a quelle naturali a ritmi sempre più vertiginosi, si aggiungono le politiche di utilizzo del suolo e in particolare la deforestazione, che riduce fortemente l’efficacia di uno dei principali “pozzi” naturali di gas serra, in particolare quello in grado di assorbire la CO2.

Non tutti gli scienziati però concordano sul fatto che i cambiamenti cimatici siano direttamente imputabili all'operato dell'uomo...

Si parla di meno dell’uno per cento degli scienziati che, per motivi che ovviamente ignoro (anche se in alcuni casi sono stati tristemente scoperti da indagini giudiziarie o da inchieste giornalistiche, e non sono affatto edificanti, giacché è stato provato che erano “opinioni” in qualche modo “commissionate” da potenti multinazionali dei combustibili fossili) persistono nel dissociarsi dalle conclusioni raggiunte, da tutto il resto della comunità scientifica planetaria, non certamente in un giorno di chiacchiere al bar, ma con decenni di studi, ricerche, verifiche e valutazioni incrociate fra i risultati ottenuti dai gruppi di ricerca attivi in tutto il globo. Che dire, personalmente li prendo come una fisiologica coda statistica: sui grandi numeri - in tutti gli ambiti del sapere, perfino in medicina, figuriamoci in climatologia – capitano una piccola percentuale di casi (talvolta anche estremi) di deviazioni dalla rigorosa applicazione del metodo scientifico e/o dalla correttezza etica e deontologica, compreso questo. 

Gli scenari che vengono prospettati per il futuro, nemmeno troppo lontano, sono estremamente preoccupanti e già ne stiamo sperimentando i precursori:  mancanza d'acqua, siccità, migranti climatici, disastrose inondazioni, temperature bollenti o glaciali, scioglimento delle calotte polari, incendi estesi ecc...  E' davvero questo che ci aspetta?

Non solo la risposta è purtroppo affermativa, ma sono ormai numerosi i lavori scientifici che, alla luce degli eventi registrati negli anni più recenti, autorizzano ad ipotizzare che gli scenari del Global Warming stiano prendendo forma in modo assai più rapido e precoce rispetto a quanto si potesse ipotizzare, ennesima conferma della complessità e della non-linearità del sistema accoppiato costituito dalla Terra, compresi i suoi oceani, e la nostra Atmosfera. Ne è drammatica testimonianza il fatto che, sempre più spesso, dietro guerre e catastrofi umanitarie ai quattro angoli del globo ci siano questioni o concause climatiche, come ci racconta anche il conflitto in Siria, e come del resto testimonia il premio Nobel per la Pace assegnato dieci anni fa all'IPCC, il Comitato delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. E se questo è quanto sta emergendo a livello globale, quanto avvenuto nel Mediterraneo (del quale sono note le caratteristiche di bacino chiuso, che lo rendono una zona del pianeta particolarmente sensibile agli effetti dei cambiamenti climatici, e del surplus che ne deriva sia in termini di carburante che di energia disponibile per l’innesco dei fenomeni estremi) ne è una testimonianza locale (si fa per dire) di assoluta rilevanza. Quel che ci aspetta, a questo punto, dipende in maniera cruciale dalle politiche di mitigazione che saremo capaci di mettere in atto.

Dott. Thiery, tornare indietro si può? C'è qualcosa che tutti noi possiamo concretamente fare per invertire questa rotta, o quanto meno per correggerla?

Tornare indietro, allo stato attuale delle conoscenze, è impossibile: anche in uno scenario di ipotetica mitigazione ai massimi termini (come dire, da domattina smettiamo all’istante di emettere gas serra, ma continuiamo inevitabilmente a fare i conti con quelli che abbiamo immesso in atmosfera da un secolo e mezzo a questa parte), l’aumento di temperatura globale di 1 grado centigrado rispetto all’era pre-industriale è assodato. Quel che possiamo e dobbiamo assolutamente fare, dalle scelte globali (e la svolta compiuta con gli accordi di Parigi, dopo oltre due decenni di colpevole stallo, rappresenta un ottimo punto di partenza, anche se la strada per attuarli si è fatta certamente più complicata, ma comunque non impossibile, dopo le ultime elezioni presidenziali negli USA) alle nostre piccole-grandi pratiche quotidiane di un vivere sostenibile, è stringere al massimo possibile i cordoni del modello di sviluppo (si fa per dire) che ci ha portato a questo punto, puntando come irrinunciabile l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura al di sotto della soglia di 1,5/2,0 gradi, tutt’altro che banale nel momento in cui, ormai, l’agenda dei provvedimenti da perseguire non si misura più sulla scala del secolo a venire (come poteva essere se si fosse agito dal protocollo di Kyoto in poi) ma prossimi anni e pochi decenni, come dire subito, anzi, prima. Vale la pena ricordare come, fino a non molto tempo fa, il valore di 2 gradi di anomalia nella temperatura globale era considerata la soglia della catastrofe, qualcosa a cui non avvicinarsi neanche negli incubi peggiori, mentre oggi è considerato un obiettivo non male da perseguire per evitare scenari ancora più rovinosi, dato che, agli attuali ritmi di produzione di CO2 antropica, l’aumento della temperatura media globale rispetto alla media dell’era pre-industriale supererà i 4 gradi (e non è neanche l’ipotesi più pessimistica) entro l’inizio del prossimo secolo. Le ultime ere in cui la Terra, centinaia di milioni di anni fa, ha sperimentato simili temperature (con ritmi di innalzamento fra l’altro assai più blandi dell’attuale), sono state quelle in cui sono avvenute (a parte la più recente, quella che ha portato all’estinzione dei dinosauri, determinata molto probabilmente dall’impatto con un meteorite) le prime quattro estinzioni di massa, capaci di riazzerare ogni volta gran parte della vita presente sul pianeta Terra.

 

a cura di Patrizia Calzolari

 

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